un canto disperato

Se il mio suono potesse essere balsamo per le ferite di ogni padre e di ogni madre che piange la morte di suo figlio, 
il mio consumare aria per una volta avrebbe senso.

Se la mia musica potesse far ballare giovani donne e farle ridere mentre guardano i loro amati, mi sentirei per una volta compreso nella storia di questo Mondo.

Se la mia ricerca fosse estensione dello sguardo in un cielo che aspetta di essere squarciato dall'ennesimo missile pronto a colpire focolari e intimita',  potrei dire che i miei pensieri hanno trovato una casa in cui poter riposare. 

Se il ritmo delle mie frasi avesse la leggerezza di un corpo di bambino fatto saltare dal colpo di un mortaio, avrei finalmente capito cosa significa il silenzio. 

Se le mie furenti grida sapessero contenere il grido della dignita'di ogni donna, uomo o adolescente stuprato da un militare invasato di potere, che si fotografa per soddisfare il suo sadismo edonista, finalmente saprei cosa rende tale  una melodia.

Se le mie pause avessero il peso della fame, del freddo di una tenda, della nostalgia di una casa, del timore per i propri cari, saprei definire l'arte e non mi perderei in iperboli di vergogna.

Se la mia memoria riuscisse a contenere le storie delle donne afgane,  di quelle del Rojava, delle donne sudanesi,  ugandesi, congolesi, delle violenze nei carceri libici, della polizia in Cile che strappa gli occhi a chi manifesta dissenso.
Se riuscisse a tenere dentro di se'il dolore lancinante della scomparsa del popolo Tuareg, e l'infanzia ingoiata dalle miniere di Coltan, se abbracciasse le lotte centenarie del popolo Mapuche, e quelle degli indios messicani, se sapesse tenere insieme il disagio, la paura e la violenza sociale dell'occidente che baratta la propria coscienza con luci stroboscopiche che annientano il pensiero , 
allora forse saprei ancora di essere umano.

Se le mie mani, forgiate da decenni di pratica avessero l'urgenza di quattro dita che coprono il pollice di una donna che chiede aiuto, o la pietà di quelle di un padre che le usa per tenere la testa di suo figlio, separata dal corpo dal disprezzo genocida di un mostro, se avesse imparato la perizia di chi cura, taglia e cuce corpi smembrati dalla stupidita' di menti malate e corrotte, o la cura di quelle che ancora cercano  il proprio sangue tra le macerie della propria casa, allora potrei immaginare di saper fare qualcosa. 
Se il corpo sapesse resistere agli oltraggi della poverta', se i miei occhi potessero vedere un futuro fuori dalle finestre del rudere che chiamo patria, 
saprei spiegare cosa significa immaginare.

Vorrei poter essere un canto per accompagnare le lacrime di cui e'fatto il mio mare.
Vorrei poter essere, realmente capace.

Ma io sono solo questo: 
una domanda che non si placa
una volontà  che non trema
una indignazione feroce
un essere umano che ama e  si danna che la sua voce sia così flebile da non  saper raggiungere l'oggetto del suo amore.
Sono solo parte di un racconto sognato in una notte di tempesta 
Sono solo un  canto disperato

(a Fatima Hassouna. Fotografa palestinese di 25 anni uccisa insieme a 9 membri della sua famiglia il 16 Aprile 2025, da un missile israeliano )

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