libertà di espressione

 C'è qualcosa che non torna. 

Le notizie rimbalzano in una logica violenta di affermazione. Il dibattito politico è oramai uno spauracchio fatto di slogan e fumo negli occhi. La stampa è talmente collusa al potere che leggiamo sugli editoriali un continuo niente, un continuo gioco delle tre carte che ci vede imbambolati davanti ad un'unica fonte di informazione (i social network) che non permettono di fermarsi..Il processo è stato semplice, prima internet era dominato dalla gratuità delle informazioni, poi ad un certo punto l'impoverimento  degli altri mercati ha costretto la nascita dei servizi a pagamento. E quindi tutto è diventato merce. Non in un processo marxista di reificazione, ma in quello completamente capitalista di disumanizzazione della proposta. Non è più importante informare perchè l'opinione pubblica sia cosciente delle questioni in atto, ma è importante produrre contenuti che possano avere l'appeal per la vendita. 

E' ripugnante che nella comunicazione mainstream spariscano numeri e persone dalle cronache giornaliere. Che i punti di vista siano così maledettamente parziali e sempre concilianti. Quelle poche proposte di approfondimento si ritrovano bloccate da ingiunzioni, denunce e manifestazioni di controllo del potere, in piena linea con quello che tutti noi abbiamo visto nei film degli anni '90 dove venivano costruite guerre a tavolino per spostare l'attenzione da qualche scandalo importante. 

Cosa vuol dire realmente libertà di espressione? Me lo chiedo, visto che di questo mi occupo: "di espressione". Ma esprimo ciò che sento e comprendo del Mondo. E sento quello che sono in grado di formulare emotivamente nel confronto con l'esterno, e comprendo se ho gli strumenti per farlo e se sono strumenti capaci di essere utili a sciogliere i nodi delle cronache del presente. 

I social network mi sembrano qualcosa di simile alle classi sovraffollate di una scuola di periferia. Dove buona parte degli insegnanti è più preoccupata alla propria incolumità fisica che del processo educativo, dove magari passano personalità valide con il sogno di fare il proprio mestiere al meglio delle proprie possibilità, ma che poi si scontrano con l'istituzione, la consuetudine, il boicottaggio di chi non vede il motivo per variare lo status quo. 

Oppure come un carcere sovraffollato, dove ci si impegna a salvaguardare per quanto possibile l'igiene ed evitare crisi di "vicinanza" in maniera repressiva, più che attuare processi di riabilitazione sociale dei condannati. In cui magari qualche minore o ragazzo appena maggiorenne si ritrova con un pluripregiudicato e quindi, secondo la legge del più forte, un errore o un'ingenuità diventano l'inizio di un fraintendimento totale dei valori sociali ed umani del vivere insieme. 

Ed in questo stare al di là e cercare di esprimere suona come il pontificare su valori e regole che semplicemente non vengono compresi o non sono in nessun modo utili al vivere in quelle scuole o in quelle carceri. 

Per cui se io empatizzo con il popolo Tuareg, perché custode di una sapienza millenaria che coinvolge le culture dell'alto Sahel fino a tutto il Mediterraneo, la cui lingua è sotto attacco da decenni, e i propri territori fatti a pezzi dalle guerre di confine di Stati interessati ad uranio, oro, diamanti empatizzo con qualcosa che nel mondo della comunicazione semplicemente non esiste. 

Per cui esprimo una lotta di esistenza che trova in chi mi rivolgo, il più completo disinteresse. Ed il muro compatto di chi è pressato in quelle carceri virtuali si fa scivolare addosso cose che potrebbero essere uno strumento per comprendere la realtà che viviamo. Perché se un popolo viene privato della lingua, operiamo un'azione in cui (passatemi la relazione con Wittgenstein) il popolo scompare. Ed è come se non fosse mai esistito, trasformando la sua storia in mito. E se succede ad un popolo, può succedere a tutti. 

E forse questa considerazione sfugge alla logica del carcere. Pensando che essendo tutti noi micronizzati all'interno del nostro spazio individuale non apparteniamo a qualcosa di più grande: famiglia, comunità, società, nazione, stato, confederazione di stati, Mondo, Umanità. Invece siamo una grande famiglia di otto miliardi di persone. Dove quello che succede nelle miniere di Coltan in Congo ha un grandissimo effetto su quello che noi percepiamo come libertà. In Congo sono i bambini che lavorano nell'estrazione dei materiali nobili, si stima circa un milione. Un milione di bambini. Per la tecnologia che muove i nostri smartphone. Il loro sfruttamento feroce, la loro infanzia distrutta per la nostra prigione virtuale. 

Ripeto: qualcosa non torna. 

Ed è interessante come questi numeri o queste informazione siano a portata di clic, non serve una laurea in geografia politica, non serve altro che la curiosità e la capacità di collegamento. Ma la stiamo perdendo, perchè le associazioni da social network sono passive. L'algoritmo decide come attirare la nostra attenzione per poi poterci indirizzare verso cose che possano capitalizzare il nostro essere utenti. Per cui compaiono pubblicità dentro i contenuti su cui siamo soffermati, e c'è un fare consolatore dell'algoritmo nel mettere davanti le cose che ci interessano per poi quasi magicamente (diciamo che la manipolazione esiste e come...) ritrovarci a guardare qualcuno che all'improvviso tira fuori un prodotto di cui tesse lodi in maniera completamente decontestualizzata. 

Esprimersi. Dare al proprio intimo la possibilità di emergere pubblicamente, cercando confronti con l'esterno. Cercare qualcuno a cui rivolgersi, perchè esprimere se stessi non è cosa che si fa da soli. Esprimere (ex-primere: spingere fuori) è un'azione che coinvolge l'esterno. 

E' possibile quindi avere una libertà di espressione se non siamo liberi? Direi di no. Se non siamo liberi di informarci, di provare empatia, di  scegliere, non potremmo mai essere liberi di esprimerci. Ma anche se non siamo liberi di manifestare dissenso, di ritrovarci a parlare, di studiare secondo le nostre attitudini e con i nostri percorsi non saremo liberi. L'unica libertà che ci è concessa e contro cui dovremmo lottare è la libertà di dimenticare. La libertà di fraintendere ed essere confusi. Esprimere se stessi significa riconoscere di poter essere compresi dall'altro. Ed essere pronti a riconoscere l'altro. Trovare un'appartenenza nello scambio e nel confronto, nel dissenso e nel comunicare. 

Per cui, oggi, c'è libertà di espressione? 

Direi di no. E su questo dovremmo interrogarci: per quale misero prezzo l'abbiamo barattata?

Riprendono i bombardamenti su Gaza. Uno delle decine dei conflitti in essere come ci ricordano i più puntigliosi. Li conosco bene quei conflitti, ma il punto è che lì in questo anno e mezzo si sta consumando una sistematica azione di Genocidio (non sono io a dirlo ma l'ONU, che sarebbe l'organismo preposto a proteggere i popoli da cose del genere, oltre la propaganda, ma con indagini indipendenti, vi ricordate? Qualcosa che l'occidente si è data per evitare che nuovi Hitler si permettano di oltrepassare ogni limite umano possibile, ancora una volta). E continuiamo a fare il gioco delle tre carte. 

Per cominciare ad esprimere noi stessi, forse dovremmo smetterla di essere il complice che si siede al tavolino per rendere credibile la truffa. In caso contrario non credo che ci siano molte speranze per la libertà di espressione o per la libertà in sè. 

Ricordate i Tuareg? Chi dice chi è al sicuro? Chi garantisce? 

Anders lo dice chiaramente. Non ci dovremmo preoccupare. Saremo quelli che non sono mai stati. Per cui sarebbe veramente inutile tutto quanto. Ma per ora ci siamo. E ancora pensiamo sia importante esprimere noi stessi. 

Partiamo da qui: non esistiamo se non come appartenenti al tutto: al Tempo, al Pianeta e a tutta l' Umanità. 

Tutta. 

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